Non significano nulla, infine, i centri cittadini attraversati senza vederli, i quartieri senza voce o gli immani viali pervasi di incomprensibile umanità. Non significano nulla le geometriche vastità di campi coltivati, i lontani uffici illuminati incastonati su alti e bui palazzi, le autostrade che percuotono la mente con l’ossessiva alternanza di luci al neon, né le visioni stranianti di scheletrici impianti industriali a cui corriamo accanto per lunghi secondi. Eppure un significato al breve transitare sulla terra arriva in modi sempre diversi, sorprendenti nella loro semplicità, che rivelano sempre la luce della poesia.
Nella perpetua e già terminata danza sul ring di Nicolino Locche si legge l’ironica resistenza dell’uomo all’impari sfida con l’esistenza: la campana d’inizio, le dodici corde, le scommesse e i pugni sono la prosa. Ma ogni sigaretta fumata tra un round e l’altro, la chiaroveggenza suprema contro ogni colpo, ogni momento in cui la guardia viene portata, come un saluto di cavaliere, al petto e non al volto, ogni passo che non è più boxe ma è già danza: questa è la poesia.
Ed è poesia, differente ma sempre partecipe di quella personale e multiforme poesia che per ognuno è senso delle cose, ogni nota di The Livelong Day degli irlandesi Lankum. Partendo dalla tradizione delle canzoni popolari in lingua inglese i Lankum hanno creato uno dei dischi più sconvolgenti del moderno panorama folk, travalicandone i confini: i The Black Heart Procession e i Devastations sfilano accanto ad uno Shane MacGowan meditabondo ma altrettanto devastante, il drone dei Sunn O))) viene iniettato nel corpo delle cupe ballate tradizionali, mentre le armonie vocali del quartetto irlandese camminano sulle macerie dei paesaggi sonori di Sigur Rós e Labradford. Altrettanto notevole risulta la ricerca sonora dei Lankum, che cesellano ogni nota, ogni armonia ed ogni drone dell’album solamente con la propria strumentazione acustica (ed i liturgici live ne sono testimoni): uilleann pipes, concertina, harmonium, fiddle e corde vengono rivisitati e spesso stravolti rispetto all’utilizzo consueto nella musica folk, dimostrando come possa essere vitale il ritorno ad una maggiore austerità in termini di utilizzo della strumentazione tecnologica.
The Livelong Day è un minimo, invisibile e testardo antidoto all’assurdo che dimora nel nostro mondo come una malattia: antidoto ancor più paradossale se teniamo conto dei temi trattati, dai suicidi di The Young People (“When the young people dance / They do not dance forever / It is written in sand / With the softest of feathers”) alle prostitute, alcolizzate, ragazze madri, lavoratrici stagionali ed ex carcerate note collettivamente come The Wrens of Curragh di Hunting The Wren (dove la voce di Radie Peat raggiunge le vette epiche ed emotive del Townes Van Zandt di Silver Ships of Andilar).
Eppure, nonostante la cupezza, i Lankum non incidono note di disperazione in chi ascolta: e questo grazie alla loro sincerità assoluta, senza alcuna concessione a mode del momento, alla coerenza del loro suono e alla poesia brutale, dolce e sempre umana che sanno creare. Tra la perfezione naturale del minuscolo scricciolo e la vertigine di alcune vette nascoste, poco appariscenti e raramente percorse dall’uomo, lì trovano riparo queste note: che come tutte passeranno, verranno dimenticate e tuttavia sempre proseguiranno la loro mutevole esistenza dove ci saranno (e sempre ci saranno) uomini e donne dotati di arte, di voce e di anima per raccontare la sconosciuta che vaga tra i filari di pioppi, il soldato rimasto senza labbra per raccontare la sua sofferenza, la bottiglia da sempre vuotata per attutire il dolore. Per narrare quello che manca nella foto.
It is not writ in stone
like the walls of the chapel
and soon it is gone
like the soft winters apple.